Oltre il Social CRM. Il Social Product Development

Se esiste un tendenza chiarissima ed estesamente discussa anche a Giugno sia all’International Forum on Enterprise 2.0 2010 che all’Enterprise 2.0 Conference di Boston è il fidanzamento, la convergenza in corso tra Enterprise 2.0 e processi al fine di riportare i nuovi approcci collaborativi nelle attività quotidiane dei dipendenti migliorandone la produttività e rendendo al contempo più flessibili ed efficienti i flussi di lavoro interni. Insomma il 2.0 che inizia a scendere sulla Terra e sporcarsi le mani con il mondo reale.

Un esempio affermato di questo passaggio tuttora in corso è costituito dal Social CRM di cui mi occupo ormai da tempo e che rappresenta un profondo spostamento del baricentro aziendale finalizzato a portare il cliente al centro del business per garantire al pubblico un’esperienza più piacevole, consistente, coordinata e specialmente una maggiore reattività dell’organizzazione rispetto ai segnali che provengono dal mercato. Di Social CRM abbiamo avuto modo di discutere estesamente al Forum grazie alla presenza di ospiti importanti come Esteban Kolsky, Mark Tamis, Francois Gossieaux e Sameer Patel, e da parte mia continuerò ad occuparmi di quest’area nei prossimi mesi con alcune iniziative da annunciare a Settembre.

La socializzazione dei processi non si esaurisce però con il Social CRM. Se esso permette di evolvere, ampliare, umanizzare i momenti di interazione con il cliente che avvengano in fase di marketing, vendita, supporto o innovazione, certamente esiste una ancora più lunga lista di frangenti in cui l’Enterprise 2.0 è altrettanto in grado di sostenere la crescita dell’azienda, ma in contesti più rivolti verso l’interno. Si parla per esempio da tempo anche di Social BPM, Social ERP, Social PLM, Social SCM.

Si tratta solamente di semplici sigle? Forse in buona misura è così, ma credo anche il filo conduttore che lega tutti questi acronimi indichi un profondo ripensamento dei meccanismi con cui l’organizzazione produce valore e coinvolge le persone, dentro e fuori dai propri confini. Una forza inarrestabile che è venuto il momento di iniziare ad analizzare.

Estendiamo quindi il nostro discorso di socializzazione dei processi di business partendo da una dimensione dagli evidenti impatti economici, organizzativi e strategici per le imprese di ogni settore: lo sviluppo sociale del prodotto o come inizia ad essere chiamato il Social Product Development (preferisco non utilizzare il termine Social PLM per marcare una distanza tra gli ampi nuovi scenari di collaborazione legati al prodotto e le funzionalità molto più limitate dei tradizionali software di Product Lifecycle Management). Un primo esempio italiano e molto concreto di Social Product Development è Olga, la intranet di Lago, sulla quale potete leggere estensivamente qui.

In che modo raccogliere e trasformare con efficienza e sistematicità semplici feedback o idee di miglioramento del prodotto in soluzioni di successo per il mercato? Questa è la domanda a cui il Social Product Development prova a dare risposta nella convinzione che collaboration ed intelligenza collettiva permettano di aumentare diversità, qualità e tempestività dei contributi, riducendo il rischio di costosi errori in fase di design, migliorando le caratteristiche complessive del prodotto e massimizzando sia la durata nel tempo che la dimensione dei ritorni per l’azienda.

Un report di Giugno di Forrester, suggerisce come Il social software consenta di approcciare tre distinti scenari di sviluppo del prodotto:

  • Miglioramento della collaborazione tra team interni: l’impiego di piattaforme partecipative consente di far crollare i silos dipartimentali, allargare e rendere visibile ogni contributo nel processo di sviluppo del prodotto a tutte le figure presenti in azienda indipendentemente dall’anzianità e dalla posizione geografica, gerarchica, organizzativa (marketing, vendite, supporto al cliente, call center, designer). Chiunque può partecipare in qualsiasi momento del giorno o della notte, senza necessariamente trovarsi in ufficio e riutilizzando per intero l’intera conoscenza fino a quel punto accumulata con enormi impatti sul ROI come mostrato dal progetto di Intranet 2.0 di Lago.
  • Apertura dello sviluppo del prodotto all’esterno tramite le community: se all’interno dell’azienda esistono decine, centinaia o anche migliaia di ricercatori ed altri individui in grado di dare un contributo, questi numeri sono cento o mille volte più grandi se si mette da parte la sindrome del non inventato qui e si coinvolgono nell’innovazione gli utilizzatori finali. Ampliando la prospettiva tramite un social network pubblico o dedicato si ha accesso a prospettive inedite, neutrali rispetto alle guerre politiche spesso presenti all’interno e specialmente rispondenti ai reali bisogni dei clienti. Procter & Gamble, Mattel, Salesforce, Starbucks sono tutti esempi di open innovation finalizzate al miglioramento del prodotto/servizio. Come è facile comprendere, questo secondo scenario è in buona parte sovrapposto alla social innovation possibile tramite il Social CRM. La differenza risiede nella necessità di integrare quanto emerso e sviluppato con l’ausilio della community all’interno di sistemi, pratiche e processi diversi da quelli del CRM, come la gestione del ciclo di vita del prodotto (PLM)
  • Integrazione di capability sociali direttamente all’intero del prodotto: non solamente i principi del web 2.0 possono essere utilizzati per migliorare il processo di sviluppo, ma anche per arricchire le potenzialità del prodotto finale ad esempio mettendo in rete i dispositivi ed introducendo meccanismi di rating, condivisione, competizione, reputation che arricchiscano l’esperienza dell’utente. Xbox Live consente oggi di giocare contro milioni di altri utenti, ma iniziano a nascere anche esempi di social shopping in cui l’interazione di acquisto con l’azienda è mediata dalla collaborazione in tempo reale e da remoto con i propri amici.

Nel concreto, cosa è possibile fare da subito nell’area del Social Product Development:

  • Utilizzare piattaforme di innovation management come Spigit per ottenere più diversità e velocità nel produrre nuove idee, raccogliere indicazioni di business e suggerimenti di miglioramento del prodotto in modo strutturato
  • Raccogliere requisiti direttamente dai clienti sia tramite community dedicate (vedi Jive) che monitorando le conversazioni online (vedi Radian6 e Sysomos) tramite una clusterizzazione delle informazioni ottenute con strumenti semantici come quelli forniti da Attensity
  • Monitorare blog degli influencer ed impiegare community chiuse per ottenere feedback dai clienti nelle fasi iniziali del design (prototipi o beta testing) migliorando la soluzione prima di metterla realmente in produzione con una conseguente riduzione di costi e rischi legati alla reputazione
  • Dare risposta a quesiti per cui le competenze interne non sono sufficienti tramite piattaforme di open innovation come Innocentive

Il fatto che oggi sia possibile rendere collaborativo lo sviluppo di prodotti e servizi certamente non significa che questo dominio sia maturo. Nonostante i primi esempi di successo, permangono diversi ostacoli da superare:

  • Poca consapevolezza sulle possibilità e sui ritorni: un report di Kalypso sul social product development sostiene che il 25% dei professionisti in quest’area non vede nella collaborazione la risposta ad alcun bisogno reale,  il 33% non ne sa determinare il ROI e circa il  60% più in generale non comprende la portata dell’Enterprise 2.0.
  • Più complessa gestione della proprietà intellettuale: aprirsi ad un ecosistema più ampio significa anche rilassare, almeno parzialmente, il controllo sulla circolazione, sulla qualità, sull’utilizzo degli asset aziendale. E’ per questo necessario sviluppare nuovi paradigmi di gestione della proprietà intellettuale, bilanciando attentamente rischi e benefici
  • Difficoltà nel separare le indicazioni realmente utili dal rumore: perdendo il controllo sul processo ed allargando la partecipazione oltre i muri dell’impresa si ottiene un’esplosione esponenziale dei contributi, ma anche dei messaggi inutili ai fini dello sviluppo di prodotto (per esempio andando a leggere quanto detto all’interno dei social network pubblici). Anche qui il problema non è tanto l’aumento delle possibilità, quanto lo sviluppo di tecniche più efficaci per filtrare le indicazioni raccolte
  • Impatti organizzativi: a chi compete gestire e coordinare lo sviluppo sociale del prodotto? Oggi a nessuno. Mentre i social media iniziano ad essere visti meno come semplici canali addizionali all’interno dei quali veicolare messaggi pubblicitari e sempre più come strumenti a supporto del business, il marketing deve imparare a portare a bordo le altre funzioni, declinando le iniziative sui loro bisogni e gestendole in modo congiunto.

In che modo il Social Product Development è collegato al Social CRM ed in che modo la socializzazione di tutti i processi, interni e customer facing, può prendere complessivamente forma? Cosa ne pensate?

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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