Migliorare il Community Management

Esistono ormai tante risorse online, offline, gratuite ed a pagamento che possono aiutare le aziende a migliorare le proprie iniziative di interazione nei social media e di coltivazione delle community online.

Negli hanno passati ho condiviso un modello di competenze, best practice, indicazioni sulla maturità del community management, strategie di incentivazione al cambiamento. I miei colleghi Emanuele Scotti e Rosario Sica hanno scritto un intero libro (al quale ho partecipato in piccola parte) su come coltivare community di utenti. Ciò che è ormai chiaro a tutti è allo stesso tempo la criticità e la complessità della figura del community manager all’interno di qualsiasi progetto di Enterprise 2.0, Social Media Marketing, Open Innovation, Social Crm.

Per capire quali pratiche funzionano meglio e come si sta muovendo il mercato per colmare la mancanza di competenze specifiche non esiste a mio avviso risorsa migliore del Tribalization of Business Study promosso ogni anno da Deloitte, la Society for New Communications Research e Human 1.0 del mio amico Francois Gossieaux (per approfondire vi consiglio il suo libro the Hyper-Social Organization ed il suo intervento all’International Forum on Enterprise 2.0 2010).

Delle edizioni precedenti dello studio avevo già parlato, ma anche quest’anno emergono segnali che dovrebbero far riflettere aziende e community manager sulle best practice da adottare:

Ecco gli spunti più significativi emersi nell’ultima ricerca:

  • Le aziende iniziano ad avere esperienza con le community. Quasi la metà (48%) dei partecipanti allo studio impiega community da più di un anno di cui il 14% da più di tre
  • Budget ridotti. Ciononostante, nella maggior parte dei casi (68%), la spesa per il lancio e la coltivazione di community si attesta nel 2010 sotto i $50K. Il 5% rappresenta un’eccezione spendendo più di $1M l’anno
  • Ancora meno risorse. Benché quasi tutti i partecipanti (84%) sostengano di gestire le community con risorse interne, più della metà non ha nessuna figura dedicata
  • Le dimensioni stentano a decollare. Dati questi presupposti non stupisce che più della metà delle community attirino meno di 500 partecipanti e solo il 6% superi i 100K iscritti
  • Facebook va per la maggiore. Pur non essendo l’unico canale, Facebook è scelto in più del 70% dei casi (e la maggior parte delle aziende nel campione è B2B!). Seguono blog e Twitter presenti in più del 60% dei progetti. Le community dedicate si attestano invece intorno al 50%
  • Una community per? Gli obiettivi più perseguiti tramite i social media sono word of mouth (60%), brand awareness e customer loyalty (più del 50%), vendite e miglioramento del supporto intorno al 40% delle risposte.
  • I ritorni di business rimangono rari. Aldilà di risultati un pò soft come WOM, brand awareness e customer loyalty, un incremento delle vendite è l’obiettivo meno frequentemente ottenuto, insieme agli impatti delle community sui modelli di business ed innovazione.
  • Marketing, solo e sempre marketing. Quasi sempre (circa 80%) l’owner di fan page, account social o altri spazi di interazione è il Marketing. IT, Vendite e Customer Service vengono coinvolti anche solo a titolo di supporto in non più del 37-47% dei progetti
  • Cosa attira le persone? I driver per cui i partecipanti si sentono attratti ad entrare e ritornare in una community sono nell’ordine il connettersi con persone con cui condividiamo un bisogno, un background o un problema (50%), la possibilità di aiutare gli altri (più del 45%), temi rilevanti ed un buon community management (30%)
  • Quali sono gli ostacoli maggiori per far funzionare una community? Le difficoltà maggiori si incontrano non solo nell’attirare le persone e nel farle ritornare (più del 40%), ma ancora di più nell’ingaggiarle (quasi 70%). Un altro problema è spesso trovare il tempo per fare community management (circa il 35% dei casi)
  • Scarso impatto sui processi. Per il 76% dei partecipanti il lancio di community non ha in alcun modo impattato i processi di business che quelle community dovevamo supportare.
  • Spenderemo più soldi nel 2011. In quest’anno solo il 5% di coloro che ha risposto intendeva ridurre il livello di investimento, mentre la metà voleva incrementarlo. Ancora più che sul budget, l’impegno del 2011 sembra essere rivolto all’incremento di tempo dedicato ai progetti
  • Altri spazi di miglioramento. Più dell’80% delle aziende dell’indagine non ha utilizzato finora un programma di ambassador e più della metà (55%) non ha cercato gli influencer per il target con cui vuole entrare in relazione.

Andando a rileggere i numeri delle edizioni precedenti dello studio, pur con alcune rilevanti differenze come l’esplosione di Facebook, dobbiamo concludere che troppe aziende ancora non abbiano capito nè l’opportunità che i social media stanno generando da un punto di vista strategico, nè le pratiche più efficaci per trarne vantaggio sul piano tattico.

I budget stanno crescendo come sta crescendo il livello di esperienza dei brand sui social media. Alcuni segnali rimangono però preoccupanti:

  • Le community sono ancora viste come un approccio sperimentale, per il quale non esistono competenze e non esistono risorse
  • Le community sono scollegate dal business sia in termini di obiettivi (per lo più soft e di marketing), che di evoluzione ed integrazione nei processi (sui quali non hanno impatti), che di ownership (quasi sempre il marketing)
  • Manca un approccio di ascolto, co-creazione, coinvolgimento e di coltivazione causa dell’incapacità di attirare, trattenere e generare valore per i partecipanti. In sostanza molte aziende, pur avendo cambiato canale, non riescono a cambiare marcia e modalità di comunicazione

Al netto di qualsiasi altro espediente, senza quest’ultimo salto strategico, culturale e di competenze la maggior parte delle community continuerà inevitabilmente a fallire, non garantendo i risultati attesi e rimanendo marginale rispetto al business indipendentemente dalla quantità di budget o dalle iniziative di comunicazione che si mettono in piedi. Comprare 1000 o 10000 utenti è relativamente semplice, ma mantenere relazioni vive e significative tra migliaia di persone in modo tale da produrre anche nuovo valore per l’azienda richiede molta più profondità, consapevolezza e fatica.

Nella mia esperienza, proprio il cambio di mindset è la chiave di volta del community management e per estensione del social business. Eppure non esiste bacchetta magica per farlo avvenire. A volte si parte dal basso, a volte dalla visione di uno o più manager illuminati. Certamente si tratta di un percorso di apprendimento e cambiamento che l’azienda deve volere.

Ciò che le imprese possono però iniziare a fare fin da subito è inserire social media e community in un quadro strategico complessivo, coniungandoli ad obiettivi di business precisi e coinvolgendo con umiltà tutti gli stakeholder (dell’azienda e clienti) per creare uno spazio sostenibile in cui tutte le parti trovino valore.

Potete scaricare gratuitamente l’intero studio sul sito di Human 1.0.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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