Incentivare al cambiamento

Chiunque abbia anche una sola volta avuto a che fare con una community, interna o esterna all’azienda che fosse, ha chiarissima in mente l’enorme inerzia, la fatica, la complessità di convincere degli esseri umani a lavorare in modo diverso. Ciònonostante il cosiddetto change management è il cuore ed il fattore critico di ogni progetto di Enterprise 2.0 che intenda produrre risultati per l’azienda: per avere accesso a nuove opportunità, per fare di più con meno, per accedere e capitalizzare l’intelligenza collettiva della folla, in ogni caso è imprescindibile spingere le persone a cambiare convinzioni, abitudini, aspettative, comportamenti.

La domanda in estrema sintesi è allora sempre la stessa: qual è (o quali sono) il modo migliore di incentivare gli esseri umani al cambiamento?

In un approccio tradizionale e top-down come può essere l’introduzione di un nuovo software, l’adozione di norma è coatta, imposta dall’alto, obbligatoria secondo il metodo della carota e del bastone. In altri termini l’azienda predispone una serie di meccanismi che premiano i comportamenti attesi e puniscono i comportamenti indesiderati.

Le community ed in generale le iniziative Enterprise 2.0 introducono però una differenza di fondo rispetto all’adozione di un qualsiasi software o strumento tradizionale: ad oggi non fanno quasi mai parte del mondo del “devi usarlo”, del “si deve fare”, ma al contrario di quello della partecipazione volontaria innanzitutto per due ragioni:

  • si tratta ancora spesso di esperimenti di cui l’azienda prova cautamente a confermare la validità senza impegnare troppe risorse
  • semplicemente è molto difficile se non impossibile (vedi il fallimento del knowledge management) obbligare un essere umano a svuotare la propria testa e riversarla in un sistema informatico o a cambiare azioni che ha perpetuato per anni o decine di anni

Andando perfino aldilà di queste considerazioni, chi si occupa di Enterprise 2.0 ha in fondo sempre ritenuto (ma senza osare dirlo ad alta voce) che costringere le persone ad adottare un comportamento fosse qualcosa di non solo ingiusto, ma anche inefficiente perché fortemente nocivo alla passione, alla creatività, al senso di appartenenza, alla voglia di partecipare dell’individuo. Ma è davvero così? Ed allora quali sono le alternative più adeguate?

Leggendo il bel libro User Adoption Strategies. Shifting Second Wave People to New Collaboration Technologies di Michael Samson (di cui scriverò più estesamente nelle prossime settimane), ho scoperto questa perla presa dalla sessione The Cardinal Rules of User Adoption alla conferenza annuale dei clienti Salesforce del 2009:

Comparando l’efficacia sul breve e lungo termine di differenti approcci motivazionali all’adozione da parte degli utenti, John McGuinan evidenzia come:

  • Il rischio di essere puniti in effetti sia il fattore motivazionale più forte, ma solo nel breve periodo
  • La promessa di essere premiati ha un effetto meno immediato, ma un pò più di lunga durata
  • A causa di questa perdita di efficacia, in ogni caso le motivazioni estrinseche non sono adatte a produrre un cambiamento permanente che mantenga elevata l’adozione di nuovi comportamenti nel tempo. Finito lo stimolo, finisce il comportamento

Perchè gli esseri umani sono così restii a cambiare? Michael introduce tre ordini di ragioni:

  • a livello individuale: paura dell’ignoto, comfort per lo status quo, mancata partecipazione nel progettare il cambiamento, mancanza di benefici personali, nessun ruolo nel nuovo status quo
  • a livello di gruppo: abitudini del gruppo, impossibilità di tornare indietro, doppio legame tra pratiche e tecnologie
  • a livello di organizzazione: cultura, politica, inconsistenza nel management, sistemi organizzativi esistenti, mancanza di tempo per comprendere il cambiamento, meccanismi di compensazione ed incentivazione, bagaglio storico

Ciò che il diagramma di sopra (che non ha valore statistico, ma che mostra i risultati di un’esperienza comunque significativa) suggerisce con forza rispetto al superamento di queste paure è che l‘unica via sostenibile per far evolvere in modo permanente l’organizzazione è quella di concentrarsi sull’utilità per il singolo individuo e per l’intera azienda del nuovo status quo.

In altri termini le persone faranno sempre resistenza ai cambiamenti che per loro non hanno senso. Non avere senso significa anche non vederne i benefici (anche se questi ci fossero), vedere benefici trascurabili o sapere che l’organizzazione è in ogni caso strutturata in modo contrario al cambiamento che si propone.

Al contrario il cambiamento organizzativo è totalmente possibile se:

  • Si rende chiaro il valore individuale del cambiamento. Solo se mi fai toccare con mano ed in anticipo i benefici che trarrò da un cambiamento mi avrai arruolato come agente del processo (senza però dimenticare il fattore 9X di Gourville)
  • Si vede il cambiamento come un processo non come un evento. Cambiare richiede tempo, ripetizione ed un chiaro percorso, non una bacchetta magica (o una nuova soluzione tecnologica)
  • Si da tempo al cambiamento. Persone e gruppi devono essere aiutati a ridisegnare abitudini e comportamenti radicati. Ci vuole pazienza.
  • Si considera il cambiamento come fenomeno sociale. Mirare l’azione verso influencer, opinion leader e figure che dispongono di alta fiducia permette di velocizzare la diffusione del cambiamento in chiave virale
  • Si mostrano concretamente le fasi del cambiamento stimolando e promuovendo i passi in avanti che i singoli individui stanno compiendo

Forse però, l’arma di gran lunga più potente nel rendere possibile ed addirittura piacevole il cambiamento è quella della coprogettazione: piuttosto che imporre dall’altro demotivando, è possibile coinvolgere le persone nell’esplicitare i propri bisogni, negoziare i nuovi comportamenti e disegnare collaborativamente il nuovo status quo. Non c’è nulla di più forte del sentirsi rispettati, valutati, ascoltati e coinvolti.

Grazie a questo approccio non solamente il nuovo status quo sarà più efficace nel rispondere ai reali problemi delle persone, ma in più le persone si sentiranno motivate dall’interno, divenendo esse stesse agenti e catalizzatori del cambiamento.

Su questa riflessione mi piacerebbe conoscere la vostra esperienza ed in particolare il punto di vista di Gianandrea Giacoma e Mario Gastaldi.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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