Problemi di Engagement

Di employee engagement ed in particolare di engagement gap ho parlato in passato. Il tema mi sta però così tanto a cuore che ho approfondirlo con alcune letture, la prima delle quali è Re-engaging with engagement pubblicata ad inizio Dicembre dall’Economist Intelligent Unit.

Il quadro che viene fuori dallo studio è per molte ragioni allarmante, ma in qualche modo conferma il fondamentale, complesso e tuttora in corso passaggio tra due opposte concezioni di azienda: quella industriale, pensata per la produzione in massa di beni materiali e quella post-industriale, costretta a fronteggiare un mercato più turbolento, fluido, globale, competitivo, facendo leva su conoscenza, creatività, collaborazione ed in ultima analisi sulla passione delle persone.

La figura tracciata dall’Economist è interessante perché recente (fine 2010), riguardante l’Europa, sufficientemente ampia (più di 300 senior executive) e variegata (19 industry ed aziende con diverso fatturato), ma soprattutto perché cerca di confrontare le dichiarazioni del senior management con il modo reale in cui l’engagement viene o non viene affrontato operativamente ai livelli inferiori della gerarchia. Ciò che ne emerge è piuttosto sorprendente:

  • Il punto di vista del top management rispetto all’employee engagement sembra essere poco collegato con la realtà dei fatti. Mentre il 47% del top management è convinto di essere il fattore determinante per l’engagement dei propri dipendenti, i senior director al di sotto condividono l’opinione solo nel 16% dei casi. Se più del 20% nella C-suite considera i propri dipendenti più ingaggiati di quelli dei competitor, solo il 7% dei senior manager è d’accordo.

  • Tra il dire ed il fare… L’84% degli intervistati sostiene che la mancanza di engagement è uno dei tre rischi maggiori per il business. A queste dichiarazioni non corrispondono però azioni mirate ad identificare, supportare e neanche a far uscire dall’azienda i dipendenti più scontenti. Solo il 12% dei manager vede sistematiche azioni in questa direzione e pure secondo il top management, l’engagement è sistematicamente discusso nei board delle loro aziende solo nel 14% dei casi

  • Deresposabilizzazione del middle management. Il fatto che solo il 13% dei top manager attribuisca al management intermedio una diretta responsabilità nella gestione delle persone, di certo non contribuisce allo sviluppo di skill adeguate all’interno dell’organizzazione. Questo atteggiamento è molto pericoloso, dato che al contrario, circa il 40% di coloro che non sono nella C-Suite è convinto che il proprio ruolo sia centrale nel motivare le persone.

  • La sfida più grande riguarda i dipendenti più senior. La maggior parte dei partecipanti alla survey considera le risorse che da più anni sono presenti in azienda come le più difficili da ingaggiare, ma anche qui la preoccupazione è prioritaria solo per il 27% dei CEO contro il 57% dei riporti diretti. Al contrario l’intero top management vive i digital natives come una sfida importante allineandosi un pò alla visione più in voga sull’ingresso della Generazione Y in azienda.

  • Quali azioni intraprendono i decision makers in azienda per migliorare questo quadro poco confortante? Mandano delle belle mail, fanno formazione, si fanno passeggiate per farsi vedere dai dipendenti nei corridoi, mentre molto meno lavorano sulle skill umane del middle management e sulla cultura aziendale:

Conclusioni

Alcuni messaggi supplementari provenienti dall’analisi fanno intravvedere come il punto non sia spesso lo stipendio: solo il 26% delle aziende con dipendenti più engaged (contro il 38% in media) considera il salario come un fattore secondario rispetto ad esempio all’autonomia (nominata al 47% nelle aziende più ingaggiate contro il 36% in quelle che lo sono meno).

Che cosa chiedono allora le persone per essere motivate a mettersi in gioco, dare di più, fornire un contributo determinante nel futuro dell’azienda? Da uno dei post citati all’inizio, emergeva come la chiave, molto più della sola compensation fosse un sincero interesse da parte di tutto il management (specialmente il proprio capo) al benessere, alla realizzazione, alla crescita ed alla partecipazione dell’individuo tramite:

  • Opportunità di sviluppare competenze
  • Miglioramento della reputazione sociale dell’organizzazione
  • Coinvolgimento del dipendente nelle decisioni
  • Attenzione al cliente dell’azienda
  • Promozione di comportamenti corretti tra i dipendenti
  • Chiari meccanismi di carriera
  • Task stimolanti
  • Una buona relazione con i propri superiori
  • Un’organizzazione che stimoli l’innovazione

Insomma l’azienda 2.0 è come sempre un’azienda soprattutto umana ed umano-centrica, che cura l’individuo ed anzi di questa attenzione fa un proprio fattore di vantaggio competitivo. Nel passaggio da push a pull, proprio questa capacità di ascolto, coinvolgimento e capitalizzazione del contributo sociale sarà sempre più il motore capace di traghettare le aziende in momenti di incertezza, volatibilità, turbolenza.

Quante aziende conoscete così? Io, purtroppo, veramente poche.

Emanuele Quintarelli

Entrepreneur and Org Emergineer at Cocoon Projects | Associate Partner at Peoplerise | LSP and Holacracy Facilitator

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